sul fascino della divisa. dal regno del tutto identico

 

Autoproduzioni Il Sottovoce, luglio 2010

leggi qui di seguito il racconto

SUL FASCINO DELLA DIVISA. DAL REGNO DEL TUTTO IDENTICO
un breve racconto (vero) e alcune riflessioni a proposito dei militari nelle strade e di rivolte passate e future.

“L’ordine regna, non governa”

“Voi ridete di me perchè sono diverso
Ma io rido di voi perchè siete tutti uguali”

Genova. Un sabato mattina dei primi di luglio.
A passo spedito in direzione Principe, dove mi aspettano un treno per Roma e due giorni per cambiare aria. Sbuco dai vicoli assorto nei miei pensieri: la piazza antistante la stazione è semideserta nel caldo afoso. Una pattuglia di alpini, scortati dal solito carabiniere d’ordinanza, presidia il deserto. Vedere questi giovani militari, vestiti di tutto punto, con tanto di piuma in testa, mi scuote per un attimo dal torpore. Sono qui a Genova ormai da un anno, gli alpini, mandati dal Governo, qui come altrove, per far fronte alla fantomatica emergenza sicurezza che attanaglierebbe il paese.

Rido sotto i baffi, penso che in una città di mare potevano almeno mandarci qualcuno della Marina, e gli auguro di prendere quanto più caldo possibile. Ma per quanto folkloristica e buffa possa essere la loro immagine, la realtà è che i pennuti che ho di fronte non sono più ragazzi di leva ma militari professionisti. Alcuni passeggiano per le nostre città mentre i loro colleghi sono in Afghanistan, al fianco degli americani, a combattere una guerra vera con i suoi relativi orrori.
Afghanistan, Italia, Europa. I pensieri si mettono in fila alla velocità del mio passo spedito. Urban NATO 2020. Quei soldatini che si muovono un po’ surreali nel vuoto pneumatico di una mezza estate troppo calda ce li ha sì mandati il governo reazionario di Berlusconi e dei leghisti, ma dietro c’è l’indicazione dei strateghi della NATO: quello che già adesso accade nelle megalopoli del terzo e quarto mondo, secondo loro, succederà presto anche qui, e allora solo truppe militari superaddestrate, e non le normali forze di polizia, potranno contenere conflitti sociali sempre più duri e diffusi. Hanno previsto che ciò accadrà entro il 2020; per intanto però si può abituare fin da subito la popolazione alla presenza dei militari sotto casa.

L’Intercity per Roma è strapieno come sempre. Mi ritrovo, per mia fortuna, seduto in uno scompartimento da sei posti, di quelli vecchio stile. Restano i migliori, ancora capaci di riprodurre una microcomunità estemporanea in cui continua a essere facile che s’inneschino interazioni, nonostante il dilagare delle protesi tecnologiche dell’isolamento autistico (ipod, mp3, computer portatili ultraleggeri).
“Anche tu qui?”
Una ragazza sulla trentina, non bella ma molto curata, sorride a un belloccio dall’aria meridionale e dal piglio sicuro.
“Eh sì, hai visto il caso!”
La tratta precedente, da Alessandria a Genova, l’hanno fatta nello stesso scompartimento e ora il gioco casuale delle prenotazioni li ha rimessi assieme anche su questo secondo treno.
“Anche tu vai a Roma?” gli dice lei che non ha ancora smesso di sorridere.
“No, magari. Vado a Spezia”
“In vacanza?”
“Macché, torno in caserma”
In caserma, si, perchè lui, calabrese di origine e torinese di adozione, è arruolato in marina da tre anni.
“Nella marina! Wow che bello, ho sempre ammirato chi sceglie questo tipo di lavoro, ci vuole una tempra, un carattere… veramente encomiabile, meno male che ci sono persone come te.” dice lei di slancio.
“Pensa che io sto andando a passare un paio di giorni a Roma da un amico che è arruolato da un anno nella guardia di finanza. Mi racconta spesso della vita militare, è veramente dura, certe regole sembrano assurde, ma in realtà credo siano giuste, servono a formare una mentalità di un certo tipo che è molto utile in questo mondo”.
Uno scossone del treno la riporta alla realtà. Si guarda intorno mentre il sorriso le si spegne lentamente sulla faccia che credevo ormai anchilosata in un ghigno eterno. Sbuffa in direzione delle scarpe, lo sguardo perso per un attimo nel vuoto, per tornare poi subito al suo nuovo compagno di viaggio.
“Che palle il treno, è una perdita di tempo” gli dice “volevo prendere l’aereo ma era troppo caro… però tutta questa gente, l’affollamento, la sporcizia, il dover stare attenti alle coincidenze, che ansia! A casa mi muovo solo in macchina, è così comoda, l’adoro”. Lo guarda un attimo, in cerca di complicità, lui sorride, e allora continua: “Certo che con la vita in marina, è difficile potersi costruire una famiglia, sposarsi, stabilizzarsi”.
“Mah, cosa vuoi, per ora non è un problema, poi si vedrà”.
I chilometri scorrono sotto le rotaie in un flusso di chiacchiere che li fa scoprire molto simili: nonostante abitino in città molto distanti tra loro, conoscono e frequentano le stesse discoteche della Versilia, della Lombardia e del basso Piemonte.
Li guardo in silenzio, ascolto, e penso a come gli spazi fisici e mentali si annullino nella rete di queste cattedrali del divertimento standardizzato: nelle notti del week-end, sono veramente in tanti a percorrere centinaia di chilometri per incontrarsi in terre di mezzo prive di una geografia precisa.
“C’è anche una bella discoteca qui in Liguria” dice a tal proposito lei mentre il treno è abbastanza vicino a Santa Margherita Ligure, ma non ne ha la benché minima idea: “Il Covo di Nord Est, a Santa Margherita Ligure, ci sono stata un paio di volte; è a Ponente, verso Savona credo, un po’ troppo da fighetti ma una volta ogni tanto ci sta”.
Tra una battuta su come ci si diverte e qualche riferimento ai valori profondi della vita, la discussione torna abbastanza ciclicamente sul tema del lavoro. Lei sta svolgendo il praticantato presso uno studio di avvocato civilista dalle parti di Alessandria.
“Sai” dice lui “anch’io volevo iscrivermi a Giurisprudenza ma non volevo rimanere a carico dei genitori fino a tardi, è per questo che ho deciso di entrare in Marina”.
“Eh già, infatti io ho quasi trent’anni e lavoro per 300 euro al mese e 10 ore al giorno e mi aspetta ancora l’esame di Stato, che è durissimo”.
“Come mai hai scelto di fare avvocato civilista e non penalista?”
“Sai com’è, per una donna il penale è pesante, devi avere a che fare con i delinquenti, con la marmaglia. Ci sono stata qualche volta in carcere, è proprio un brutto ambiente, non fa per me”.
“In quale carcere sei stata?”
“In quello di Alessandria”.
“Ho un amico che lavora nella polizia penitenziaria lì, brutta cosa la penitenziaria, deprimente, sicuramente la peggiore tra tutti”.
“Sì. Anche se Alessandria è comunque un carcere abbastanza tranquillo rispetto ad altri”.
A questo punto mi sento un po’ saturo del mondo che questi due eroi della contemporaneità mi stanno improvvisamente sbattendo in faccia; non che non sappia bene della sua persistente vitalità e pervasività, ma, nelle mie scelte esistenziali, appena ho potuto (ovvero dal giorno successivo alla maturità) l’ho rimosso e da allora cerco di evitarlo accuratamente.
Con questo sentimento di rivalsa che sta affiorando, per un attimo mi viene la tentazione di inserirmi nel discorso e dire che anch’io conosco delle persone nel carcere di Alessandria, dall’altra sponda però, perchè da qualche anno lo Stato ha deciso di aprire lì una sezione speciale apposta per gli anarchici, quelli “cattivi”.
Ma la curiosità prevale sul fastidio, per cui taccio e continuo ad ascoltare. Il premio per il mio silenzio arriva poco dopo: nel mezzo di questa sfilza di luoghi comuni sulla vita militare ecco lei finalmente abbandonarsi al classico elogio della divisa.
“Sì, le regole della vita militare sono pesanti e a volte un po’ assurde, ma quanto è bella la divisa, che fascino irresistibile!”.
E forse per nobilitare questo suo sentimento, tira fuori una patetica sbrodolata sociologica sulla divisa e “l’immaginario collettivo”.
Palesemente inorgoglito a livello personale ma più smaliziato di lei rispetto al mondo reale, lui incassa ma aggiunge una nota rude a questa infilata di luoghi comuni e mielosi: in alcuni contesti, le racconta, la divisa non è vista così bene.
“Sai in alcune discoteche, io e il mio miglior amico commilitone preferiamo presentarci alle ragazze come semplici operai”.
“Ma va?! E perché?”
“Eh, perché, come spiegartelo… Tu non ci crederai, ma guarda che addirittura a Livorno, per esempio, nel centro storico, non ci possiamo proprio mettere piede in divisa perché se no ci menano”.
“Ma no dai, perché mai, come è possibile, cosa mi dici…”
Lei lo guarda esterrefatta. Proprio no, una cosa del genere non l’avrebbe mai creduta possibile.
Purtroppo non c’è tempo per ulteriori spiegazioni, La Spezia è ormai vicina e lui deve scendere.
“Ce l’hai il profilo Facebook?” azzarda lei.
Si certo, ovvio che c’è l’ha… di Facebook avevano già parlato prima concordando che è una figata anche se a volte rischia di essere un boomerang, perchè più di un loro amico ha rotto il fidanzamento per aver visto le foto di lui/lei in discoteca in atteggiamenti un po’ così.
Comunque il contatto è stabilito, si sentiranno presto via Facebook, ma forse anche prima.
“Sai lunedì sono dalle tue parti”, dice lui.
“Ah sì, dove?”
“Serravalle, dei miei amici mi portano in quel posto… come si chiama?”
“L’Outlet?”
“Esatto l’Outlet, mi hanno detto che è un gran bel posto”.
“Sì è magnifico, è enorme, è una piccola città e ci sono tutte le marche. Io ci vado spesso nella pausa pranzo, tanto in 40 minuti di macchina vado e vengo, mi piace un sacco guidare, e poi lì a girare tra un negozio e l’altro mi rilasso”.
Il cerchio dei nonluoghi che gestiscono la vita quotidiana, l’immaginario e il tempo libero di tanti nostri consimili si chiude perfettamente; tra una discoteca in Versilia, un Outlet nella Bassa Padana passando per lo spazio virtuale di Facebook, l’affinità è stabilita, è nata un’amicizia.
Il mondo, ai loro occhi, è un posto confortevole, che dà delle sicurezze.
I due si salutano; lui scende, lei riceve una telefonata di un’amica e non fa in tempo a raccontarle di questo incontro con questo ragazzo “veramente carino” che il passeggero che prende il suo posto nel sistemare i bagagli le sbatte maldestramente un sacchetto in testa.
La vendetta del destino si abbatte sulla malcapitata: il nostro nuovo compagno di viaggio è un tizio stranulato, un inglese in ciabatte, carico di sacchetti e borsoni ingombranti. Ha mimiche alla Monsieur Hulot: prende e toglie continuamente cose dai bagagli, si alza e si siede, fa e disfa, rovescia continuamente cose per terra, scrive appunti di viaggio su un quaderno scalcagnato da cui strabordano scontrini e foglietti vari, mangia cibi improbabili che tira fuori dai sacchetti stropicciati. Fa tutto questo e sorride, si vede che è in viaggio e se la gode.
Lei è sconvolta, non lo sopporta; lui è l’incarnazione di tutto ciò che odia dei viaggi in treno e probabilmente della vita. Passerà il resto del viaggio a fare facce disgustate. Io riacquisto il buon umore e, un po’ maligno, sorrido anche a lei cercando una complicità che la incoraggi a mostrarsi libera e sincera per quello che è:
“Rimpiangi proprio l’aereo eh?”, le dico a un certo punto ammiccando. Saranno le uniche mie parole rivolte a lei in sei ore di viaggio.

Mentre io mi godo in silenzio questa piccola riscossa dell’umano, rimango a rimuginare sul discorso della divisa, sul suo doppio ruolo di difesa del mondo e di simbolo dell’ordine che regna su di noi.
L’immagine dell’ostilità e delle botte che le divise si attirano nel centro di Livorno mi fa tornare col pensiero alla mia Genova. Medito sul fatto che un anno fa le divise degli alpini sono state accolte da una popolazione storicamente ribelle con indifferenza ma non con ostilità, anche se in effetti uno di loro è stato sonoramente legnato per aver tentato un’improbabile azione in difesa della sicurezza urbana per sventare un pericolosissimo mercatino abusivo di immigrati clandestini.
Solo un manipolo di anarchici scese allora in strada a contestarli, peraltro con modi ironici, ma rimase isolato, senza quel contorno variegato e molto ampio di persone che pure soltanto pochi giorni prima e negli stessi vicoli del centro storico aveva cacciato con rabbia leghisti e altri razzisti che raccoglievano firme per la stessa emergenza sicurezza, per chiedere la presenza di quegli stessi soldati che ora erano arrivati. Un episodio che, a rifletterci a freddo, conferma la cronica difficoltà degli anarchici a creare e mantenere relazioni con il contesto sociale, ma testimonia anche la schizofrenia di chi non coglie il legame così palese tra le cose.
Penso anche che sempre a Genova ci sono appena state le commemorazioni per i 50 anni della rivolta del 30 giugno 1960 e mi ribolle ancora il sangue all’idea dell’insopportabile opportunismo con cui la sinistra istituzionale ha provato a impadronirsi del senso di quegli eventi parlando di un moto di coscienza civile in difesa dei valori della Costituzione e della democrazia, quando i fatti e le testimonianze dell’epoca parlano inequivocabilmente di una rivolta popolare che quella stessa sinistra (ANPI, PCI, sindacato), trovandosi scavalcata, cercò di sedare e calunniò.
Quel giorno il pretesto di impedire il convegno nazionale dei fascisti del MSI unì tutta la popolazione genovese contro la polizia, che venne attaccata in scontri durissimi tanto che qualche celerino venne disarmato e qualcun altro fu sul punto di essere annegato nella fontana di De Ferrari… altro che coscienza civile e democratica:

“Senti, so che tu hai partecipato ai fatti del giugno Sessanta. Puoi raccontarmi qualcosa?
Ora non è che mi ricordo proprio tanto. Io di politica non ci capivo niente, però mio padre era comunista e tutta la gente diceva che c’erano i fascisti che volevano venire a Genova. Noi sentivamo questi discorsi. C’erano anche quelli più grandi che facevano gli avventizi in porto e andavano alla chiamata, dicevano che dovevamo fare qualcosa. Ma poi la cosa che, secondo me, contava ancora di più è che c’era la polizia dalla loro parte. Nessuno vedeva bene gli sbirri. Si diceva andiamo contro i fascisti e contro la polizia, era la stessa cosa.
Vuoi dire che nel tuo quartiere, tra voi giovani ma anche tra i vostri genitori, le forze dell’ordine venivano viste come dei nemici?
Come amici, no di sicuro. Anche se non capivi di politica, nessuno di noi la faceva, capivi che tutti quelli erano contro di te, e allora si diceva andiamo a dargliele.
Vi siete organizzati?
Ma no, abbiamo preso e siamo andati. Siamo andati verso De Ferrari. Mentre andavi vedevi altri che andavano. Sembrava come quando c’era la partita…
Poi come è andata?
Quando siamo saliti su dai vicoli c’era già casino, la polizia caricava e allora ci siamo buttati dentro, giù botte agli sbirri e quelli i manganelli se li sono infilati nel culo. In giro si diceva: andiamo a cercare la celere.
Perchè secondo te?
Perchè dicevano che erano quelli che picchiavano di più e che davano sempre addosso agli operai. Allora la gente voleva andarli a cercare per vendicarsi, credo. Tutti picchiavano e gli sbirri scappavano. Io ne ho buttati due nella vasca. Ci siamo divertiti.
Poi cosa è successo?
Non lo so, io non capisco nulla di politica, se c’era da dare alla polizia e ai fascisti mi stava bene, ma poi parlare non sono capace. Però, sono stato con un gruppo che andava anche a dare la caccia ai fascisti. Abbiamo picchiato anche qualcuno che forse non era fascista, ma se incontravamo qualcuno che era ben vestito e che si vedeva che non si era picchiato con la madama gli davamo anche a lui. Non sapevamo chi era, ma sarà stato uno stronzo se no veniva a dare alla madama insieme a noi.
Secondo te in quel momento la città era spaccata in due, chi non partecipava alle botte era contro di voi?
Sì, perchè anche chi non era lì ti appoggiava. All’andata la gente ci salutava, tirava fuori dalle case le bandiere rosse, ci diceva di darle ai fascisti, stava con noi. Le donne non venivano ma cantavano.
Tu come eri vestito?
E chi se lo ricorda. Avrò avuto i blue-jeans e una canottiera.
Non avevi la maglietta a strisce?
Quel giorno mi sembra di no, però l’avevo a casa. All’epoca andavano di moda. La compravi al mercato, ce l’avevamo tutti”.
(testimonianza tratta da Quadrelli, Dal Lago, La città e le ombre)

Il flusso dei pensieri si annoda attraverso una serie di collegamenti.
Il fatto che il soldato di marina di oggi ammetta candidamente che girare a Livorno è sconsigliato a chi veste una divisa mi ricorda che neanche due mesi prima della rivolta genovese del 30 giugno, qualcosa di simile era accaduto proprio a Livorno.
Nel pomeriggio del 18 aprile 1960 uno dei 600 paracadutisti dell’Ardenza stanziati a Livorno fa un apprezzamento pesante nei confronti di una ragazza livornese nella centrale Piazza Grande. La reazione del fidanzato non si fa attendere; due pugni e ne nasce una rissa tra il manipolo dei paracadutisti presenti e un gruppo di giovani del luogo.
La faccenda sul momento si contiene, ma finisce con la promessa dei paracadutisti a tornare il giorno dopo: “Va bene ci saremo”, rispondono i livornesi. Il 19 i parà tornano in forze su un camion ma trovano ad attenderli un centinaio di giovanissimi, “la maggior parte con blue jeans e giacconi neri di cuoio” (do you rememeber teddy boys?). Il regolamento di conti si trasforma in una guerriglia urbana che durerà fino a notte inoltrata: i parà, pur appoggiati da polizia e carabinieri, avranno la peggio. Il giorno dopo, il 20, i parà vengono tenuti prudentemente in caserma, ma la scintilla di uno di loro che, di ritorno da un congedo e ignaro di tutto, passeggia per il centrocittà scatena una nuova sommossa guidata dai ragazzi dei quartieri popolari e appoggiata dall’intera popolazione: a questo giro a finire nell’occhio del ciclone, in mancanza dei parà, sono le divise di poliziotti e carabinieri, le cui jeep vengono distrutte da lanci di pietre, bottiglie e vasi di fiori: bilancio della giornata 7 feriti tra i poliziotti, 55 fermati tra gli insorti.
Ormai i livornesi ci hanno preso gusto e giovedì 21 lo scontro riprende e si alza di livello. Da un lato si schierano in piazza tutti i 600 parà e alcune migliaia di carabinieri e celerini in tenuta antisommossa; dall’altra parte è l’intera Livorno che decide di non voler sopportare. A tirar su le barricate e a rovesciare le camionette della celere non ci sono più solo i “giovani teppisti” dei quartieri popolari, ma tutti: operai e portuali, ma anche donne e persone normali. All’1 di notte, dopo una giornata di scontri molto duri, il centro di Livorno è letteralmente occupato dalle barricate. La polizia spara più volte colpi di pistola per sedare la sommossa e alla fine saranno i dirigenti del PCI e dei sindacati – ancora loro, come a Genova due mesi dopo – che riescono a riportare la calma chiedendo e ottenendo la proclamazione di un giorno di sciopero generale per l’indomani. Gli scontri terminano a notte fonda con il bilancio di 37 feriti (15 poliziotti, 12 livornesi, 10 parà), 70 arrestati (di cui 50 minorenni) e 220 fermi.

I militari nelle strade, gli alpini, il fascino e l’odio per la divisa, le rivolte di Livorno e Genova nel 1960, il mondo artificiale e sordo che si ramifica tra i centri commerciali e le arterie che collegano discoteche distanti centinaia di chilometri attraverso spazi spogliati di senso.
Come s’intreccia tutto ciò? Ha un senso al di là delle mie suggestioni?
E’ fin troppo facile stabilire il nesso che lega la funzione pratica delle autorità in divisa con il valore simbolico che la divisa stessa incarna come segno del tutto uguale, dell’ordine inteso come annullamento della diversità.
Basta sostituire la parola divisa con quella di uniforme ed emerge immediatamente chiara qual è la sostanza dell’ordine sociale e mentale che le divise devono garantire e servire: l’uniformità, l’identico.
Viviamo in un regno del tutto identico?
Ballard nell’ultimo romanzo scritto prima di morire, volendo suggestionarci con l’immagine di un mondo simile, suggerisce nel titolo che esso sia un Regno a venire, ma si sa che le visioni dei grandi narratori traggono spunto da ciò che essi hanno la particolare sensibilità di cogliere attorno a sé.
E’ altrettanto facile notare che città come Genova e Livorno si prestino più facilmente di altre ad incarnare dei baluardi di resistenza all’ordine dell’uniforme, in quanto da sempre i porti sono luoghi del meticciato e della diversità, luoghi in cui gli incroci imprevedibili di persone perennemente in movimento creano territori ostili alla sterilizzazione dell’umano.
Ma allora perché oggi moti di vitalità e rivolta popolare di quel genere sono così meno frequenti?
In fondo sono passati solo cinquant’anni.
Forse perché, in questo arco di tempo, il regno del tutto identico si è allargato e radicato attraverso canali più subdoli, perché la sua essenza si forgia tutti i giorni negli spazi fisici e mentali delle discoteche, degli outlet, dei centri commerciali, della televisione e di internet, che modellano e uniformano l’esperienza e l’immaginario delle persone in modo “gentile”, attraente, rassicurante, stimolando la nostra servitù volontaria.
Oggi il regno del tutto identico ha occupato tutto lo spazio a disposizione perché è stato capace di ottenere la banalizzazione dell’immaginario individuale e collettivo, la sterilizzazione delle relazioni umane e sociali, l’annullamento della possibilità di avere esperienze libere e autonome.
La fantasmagoria delle merci che ha raggiunto l’apoteosi nel consumismo di massa; la ristrutturazione della vita quotidiana della collettività attraverso lo stravolgimento delle città e delle sue forme di vita; la diffusione sempre più capillare del cancro televisivo e dei suoi modelli estetici, culturali e morali; e poi mille altre forme più sottili di dominio, diramazioni dello stesso ordine: è tutto questo che ha permesso che il fronte dell’omologazione e dell’alienazione si sia infiltrato fino al midollo della civiltà contemporanea, senza trovare quasi più opposizione nella palude di passività e impotenza in cui siamo tutti invischiati.
“Produci-consuma-crepa”, in fondo questo slogan all’apparenza un po’ truce e superficiale, contiene una verità profonda, che trova legittimazione storica in precedenti non da poco.
Negli anni Trenta, infatti, i più importanti architetti mondiali, incaricati di progettare nuove città più funzionali ai nuovi bisogni del capitalismo, avevano stabilito che la vita delle persone si dovesse ridurre a “lavorare-abitare-riposarsi-circolare”. E trent’anni dopo, per descrivere l’esistenza delle persone nelle città ristrutturate secondo quei principi di base nel momento del trionfo del neocapitalismo dei consumi, i sociologi avevano coniugato la definizione “metrò-boulot-dodo” (metrò-lavoro-nanna). Qualcun altro aveva parlato di “folla solitaria”.
Ecco la sintesi dell’idea di felicità del progresso, la sostanza della nuova organizzazione dell’esistente che dagli anni Sessanta si è ramificata e radicata fino ai giorni nostri: l’eterno ritorno del sempre uguale, l’isolamento, l’ansia, la noia, la nausea di vivere, le passioni tristi, la fine di ogni possibilità di costruire avventure e sperimentare la libertà.
No future, insomma… il punk ha avuto le sue intuizioni geniali.
Più ripenso alla chiaccherata tra il soldato di marina e l’aspirante avvocatessa sul treno per Roma, e più mi convinco che le uniformi dei militari sono sì il suo avamposto, il suo simbolo e il suo strumento di difesa, ma non sono il cuore di questo regno del tutto identico.

In fondo la polizia nel fare il suo sporco mestiere ogni tanto fisiologicamente commette degli errori; ogni tanto massacra la gente come a Genova durante il g8, e sempre più spesso ammazza per strada ragazzi come Federico Aldrovandi. Non è strano quindi che un sentimento se non di ostilità aperta almeno di diffidenza nei confronti delle autorità in divisa continui ad alimentarsi; negli stadi piuttosto che nelle periferie i giovani si alleano sempre più spesso per dare addosso agli sbirri.
Purtroppo lo stesso sentimento di diffidenza e gli stessi moti di rabbia non ci sono quando un quartiere viene stravolto per aprirci un centro commerciale, quando il capitale getta le basi materiali di un’ulteriore decisiva avanzata nel consolidamento del proprio dominio.
Ed è proprio questo il cuore dell’ordine mondiale che gli strateghi della NATO devono difendere militarmente sia dove esso c’è già, sia dove bisogna esportarlo.
Il grado delle divise che sono preposte al suo mantenimento dipende solo dalle circostanze locali.
Non a caso il pacchetto sicurezza introdotto l’anno scorso dal governo italiano, che pure culmina nell’introduzione dell’esercito per le strade come preparazione di conflitti a venire, nella sua sostanza attuale passa soprattutto per una serie di norme di criminalizzazione e soppressione di banali forme di vita urbana – bersi una birra per strada, sedersi sui gradini di una piazza – considerate “diverse”, poco consone all’ordine della vita preconfezionata a cui siamo chiamati a rassegnarci. I vigili urbani per ora, e non l’esercito, sono chiamati a riportarci all’uniformizzazione nelle città pacificate e sonnacchiose di un Occidente rincoglionito da decenni di televisione e merci nelle vetrine.
E’ per questo che quando ripenso al dialogo tra i due miei eroi da treno mi rendo conto che la cosa che più mi ha raggelato non è stato il nonsenso della vita militare, o peggio ancora gli orrori e le nefandezze che i professionisti della guerra e del controllo sociale devono assumersi in nome degli interessi di un mondo sull’orlo dell’abisso, ma la rassegnazione, il vuoto esistenziale e di esperienze alla base delle loro vite.
E’ questo vuoto l’orrore generalizzato che sgomenta e che dovrebbe essere combattuto giorno per giorno: la vita squallida e desertificata attraverso la quale veniamo abituati a considerare tutto ciò che ci circonda come normale, ineluttabile.
Ripensate all’amore professato dalla nostra aspirante avvocatessa per l’automobile, come mezzo di spostamento e condizione di libertà nel mondo gelido in cui trascina la sua triste esistenza, e confrontatelo con questa efficace interpretazione del perché i rivoltosi delle banlieues nel 2005 abbiano incendiato migliaia di automobili, comprese quelle dei loro vicini e parenti:
“L’automobile si è imposta come il prodotto-pilota della società industriale, ed è logico che, nei paesi ricchi, i rivoltosi brucino le macchine che ingombrano le strade… I pianificatori non avrebbero potuto concepire l’estensione di periferie-dormitorio se non avessero potuto scommettere sul fatto che gli abitanti del Suburbio avrebbero tutti, o quasi, fatto l’acquisto di questa protesi diventata indispensabile. Non possedere un’automobile quando si abita nel Suburbio vuol dire vedersi condannati alla assoluta segregazione, senza la minima scappatoia.
Bruciando le macchine i giovani se la pigliano con oggetti che non hanno nulla di innocente. L’automobile, nella sua concezione, incarna l’imprigionamento. Questo abitacolo prolunga il domicilio privato, di cui ha lo statuto legale, dato che presumibilmente la polizia non può entrarci senza mandato di perquisizione e l’automobilista chiuso in pieno imbottigliamento nella sua macchina con l’autoradio, il telefonino, il riscaldamento e l’aria condizionata riassume perfettamente la condizione inumana dei ragazzi di periferia: separati radicalmente dagli altri ma con un minimo di comfort personale. Non stupisce che l’aggressività sia la norma di comportamento degli automobilisti: il traffico automobilistico come metafora della società nella quale viviamo, dove l’Altro è ammesso solo a distanza. Con la mobilità che incoraggia, la macchina incarna soprattutto l’imprigionamento crescente dei neourbani in tragitti solitari, spesso sempre uguali: offre una libertà di movimento in cambio di un isolamento crescente, che rende questa libertà illusoria” (Alessi Dell’Umbria, Il rogo della vanità).
Se è vero che nell’allucinante uniformità urbanistica delle ban-lieues (letteralmente, i “luoghi del bando”), il regno del tutto identico si mostra in tutta la sua essenza, nuda e cruda – un avamposto di retroguardia spoglio dell’apparato di illusioni e abbellimenti messo invece in campo dal capitale negli altri suoi luoghi strategici – allora si capirà il senso profondo, il messaggio profetico, del fuoco nichilista appiccato dai suoi giovani abitanti non ancora rassegnati alla propria morte.
L’unica scommessa da tentare è se è ancora possibile trovare una dimensione attiva, in senso nietzschiano, a questo nichilismo.

E allora mi abbandono a qualche suggestione finale.
Intanto devo ringraziare quello sconosciuto viaggiatore inglese che, scombussolando l’ordine sterile e omologato della giovane avvocatessa mia compagna del viaggio verso Roma, ha ricordato a lei (e rassicurato me) che il mondo e la vita continuano ad essere nonostante tutto irriducibilmente disordinati. Monsieur Hulot continua ad essere l’eroe da contrapporre agli zombies che ci assediano da ogni parte.
E’ con questo residuo di fiducia nelle possibilità di un umano non omologato che potrò continuare a gioire, e se possibile a partecipare, per ogni moto di rivolta che esploderà quando qualche autorità in divisa incapperà in qualche sopruso troppo imprudente; ed è nello spirito della resistenza contro il progresso dell’alienazione che Hulot incarna in Mon Oncle che sarebbe bello che la stessa rabbia si esprimesse quando un quartiere viene sventrato per costruirci un centro commerciale. Come dicevano quelli dell’Angry Brigade in un comunicato del 1971, “la violenza non esiste soltanto nell’esercito, nella polizia e nelle prigioni, esiste anche nella scadente cultura dell’alienazione portata avanti dalla televisione e dai giornali, esiste nell’orribile sterilità della vita urbana”. In questo senso la lotta portata avanti da un gruppo di abitanti di Barcellona in difesa del loro quartiere a fronte di un progetto di cosiddetta riqualificazione (e raccontata nel documentario El Forat) è un buon esempio di come, per non soccombere, sia necessario lottare dall’interno delle viscere del regno del tutto identico, difendere ciò che resiste alla sua avanzata e rilanciare il costruttivo e il possibile sempre e comunque.
Le forme di vita condivise e le esperienze costruite valgono più di qualsiasi altra arma nella lotta contro l’apocalisse. Danno forza e coraggio.
E’ con questa speranza che continuerò a dare il mio contributo affinché alpini e militari vari vengano prima o poi cacciati dalle strade di Genova e delle altre città, ma mi viene da credere che in alcuni casi, come suggerisce Albert Cossery nel romanzo La violenza e il riso, forse la derisione e la beffa siano armi più efficaci per sabotare e sconfiggere certe espressioni del potere, quando queste si palesano in forme smaccatamente idiote e ridicole.
Anche perché la dignità vale solo tra persone di uguale condizione e che si stimano a vicenda, ed essere dignitoso davanti a un poliziotto o a qualsiasi altro agente del potere in vigore non significa nulla.
Ma nei giorni in cui rielaboravo questi pensieri aleggiava lo spettro della ricorrenza di un altro pezzo della recente storia genovese; si stavano per compiere i nove anni dalla rivolta del 20 luglio 2001 e dalla morte di Carlo.
Alcuni avvoltoi della sinistra stanno riproponendo lo stesso meccanismo del 30 giugno 1960, cercando di recuperare il senso di eventi che allora combatterono e calunniarono; e ce la faranno, sicuramente tra qualche anno quel 20 luglio verrà celebrato come una battaglia in difesa della Democrazia. Ma in fondo chi se ne frega, penso che il senso di quella rivolta ha un valore aggiunto da rilanciare oltre le squallide operazioni dei sinistri, perché ha dimostrato una lucida consapevolezza, e una pratica conseguente, sulla natura del dominio. Essa ha infatti cercato di evitare (finché è stato possibile) lo scontro con le divise ed è andata a colpire il cuore inanimato e asettico dell’ordine che queste si “limitano” a difendere; attaccando e bruciando tutto – carceri e banche, ma anche supermercati, automobili, fino alle soltanto apparentemente innocenti pensiline degli autobus -, gli insorti del 20 luglio 2001 hanno svelato in modo spontaneo e naturale quali sono i canali dell’oppressione che, attraverso l’aspetto banale di doveri scontati e percorsi obbligati, quotidianamente mortificano la nostra voglia di sperimentare e giocare con il possibile dell’esistenza, rendendoci docili e stupidi.
Detour lanciò un’interpretazione inedita di quei fatti che resta valida sia a livello storico che a livello propositivo. Mi sono rallegrato di sapere da alcuni amici svizzeri che, per esempio, quello spirito continua a vivere attraverso alcuni moderni carnevali che, al grido di reclaim the streets, si riappropriano delle strade di qualche “nostra” città morta, sposando l’atmosfera di una festa danzata con l’attacco distruttivo ai luoghi che incarnano il regno del tutto identico, con il consenso di tutti i partecipanti.
Ma tutto quanto detto finora non cancella un’ultima inderogabile verità; che in certi momenti, nonostante tutta la lucidità e l’accortezza che si vuole, da certe situazioni non si può sfuggire.
Il potere non può tollerare il mondo alla rovescia, neanche per poche ore. E allora non è inutile ricordare ancora una volta che quando la divisa gli ha sparato in faccia in mezzo a piazza Alimonda, uccidendolo, Carlo stava facendo la cosa che in quel momento andava fatta, la cosa giusta. E lo stava facendo, come tanti altri, senza la divisa di qualche presunto “professionista” della guerriglia calato da terre lontane, ma per le strade della sua città.
Tutto il resto, alla fine, non conta nulla.
Queste righe sono per lui e per lo spirito della sua lotta.

Published by grimaldello

dall'aprile 2006, nel cuore del centro storico di genova LA NOSTRA POSIZIONE E' QUELLA DI COMBATTENTI TRA DUE MONDI: UNO CHE NON RICONOSCIAMO, L'ALTRO CHE NON ESISTE ANCORA. OCCORRE FAR PRECIPITARE IL LORO SCONTRO, AFFRETTARE LA FINE DI UN MONDO, CONTRIBUIRE ALLA CRISI IN CUI RICONOSCERE I NOSTRI AMICI. "IL GRIMALDELLO" E' PENSATO PER QUESTO, UNO SPAZIO DOVE PROVARE A SCARDINARE LA PASSIVITA' E L'ALIENAZIONE A CUI IL CAPITALISMO CI COSTRINGE NEL QUOTIDIANO.

2 replies on “sul fascino della divisa. dal regno del tutto identico”

  1. bellisime considerazioni di viaggio; senz’altro condivisibili da uno, che la tratta alessandria genova l’ha fatta per 12 anni di fila. Proprio vero non si finisce di incontrare che quella fauna lì. Ma è parte del mondo (e che parte), del piccolo mondo nel quale, aimè, tocca viverci anche noi libertari. E non c’ è possibilità di convivenza fra noi e loro, non per snobismo ma pura constatazione. Il fascino della divisa è quello stesso motus masochista che le fa piacere tutto quello che è obbedienza, vagheggiamenti e fantasie manganelliche, e di seguito il resto, outlet compresi. Bisogna non aver subito l’imprinting (o averlo subìto, poi crescendo identificato ed esorcizzato) per non subire il fascino del masochismo che è divisa, ordine, obbedienza, conformismo, sottile e perverso piacere di esporre le terga a disposizione di un duro e nero manganello. Sono così, e solo così si spiega la disponibilità ad accettare l’agone politico, le leggi speciali, la riscoperta del nucleare, le varianti di valico. Tutto il resto e devianza !
    Saluti libertari

  2. gran pezzo, complimenti all’autore, un vostro “vicino” della maddalena.
    io credo che ci siano ancora ragionevoli spunti positivi e di speranza.. seguiamoli!

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