Anteprima di “CONTRO HEIDEGGER”, prossima uscita delle autoproduzioni “IL SOTTOVOCE”

Stimolati dalla vicenda Wu Ming sull’utilità si smascherare alcune vedettes di questa putrida società dello spettacolo, vedettes che godono di una fortuna e di un credito non solo ingiustificati ma soprattutto dannosi per chi perde del tempo a cercarne di cogliere un valore positivo che non esiste, annunciamo l’uscita del prossimo opuscolo de Il Sottovoce: CONTRO HEIDEGGER, un bel testo in cui Gunther Anders illumina come questo mostro sacro della filosofia contemporanea, osannato in tutti gli atenei d’Italia, non si fosse "semplicemente" limitato ad aderire formalmente al nazismo per conformismo e opportunismo, ma come l’intera sua filosofia fosse reazionaria, con dei punti di ancoraggio sostanziali al nazionalsocialismo. Come antipasto all’opuscolo vi offriamo questo breve testo di Girolamo De Michele.

Buttare Heidegger giù dalla torre?

(http://www.carmillaonline.com/archives/2008/09/002785.html#002785)

 

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin
Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la
Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!»
Questo aneddoto (del quale sono debitore a Michel Cioran) dà la cifra
morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo
autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non
trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata
con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel campo dell’esistenzialismo,
Sartre teneva all’Università corsi il cui contenuto avrebbe potuto
costargli la vita (come accadde per Marc Bloch), Camus scriveva sulla
rivista partigiana “Combat”, Lévinas e Primo Levi erano in campo di
concentramento, Pareyson partecipava alle riunioni clandestine di
Giustizia e Libertà, Pietro Chiodi evadeva dalla prigionia, tornava in
Italia e riprendeva la via della montagna partigiana, Beckett, che pure
era irlandese, si arruolava nella resistenza francese.

Mi è sempre rimasto il dubbio di come il vile Martin abbia
annunciato alla consorte teutonica la capitolazione di Berlino e la
morte di Hitler: posso immaginarlo uscire di casa in punta di piedi
lasciando la radio accesa, e rifugiarsi in quell’angolo dove un
contadino dagli occhi (ci mancherebbe!) azzurri, riposandosi con la
pipa in bocca, se lo vedeva arrivare ogni giorno, anch’esso armato di
pipa e tabacco.
Heidegger riteneva che in quei frangenti si raggiungesse la più
autentica comunicazione fumando silenziosamente in compagnia: avrà il
contadino, sfinito dal lavoro dei campi, pensato lo stesso di quel
buffo omino tanto simile a quello della birra Moretti,
vestito con assurdi calzoni alla zuava e giacche di taglio
settecentesco? Eppure Martin Heidegger è considerato un gigante della
filosofia. Intendiamoci: Essere e tempo è un grande libro, soprattutto là dove compie una ricca analisi della condizione umana (nel suo complicato linguaggio: del Dasein, dell’esser-ci) gettata nell’inautenticità, nell’alienazione, nella perdita di senso. Ma quando Jean-Paul Sartre dichiarò, nella conferenza L’esistenzialismo è un umanesimo,
di considerarsi allievo dell’Heidegger di quelle pagine, Heidegger
stesso gli rispose sprezzantemente rinfacciandogli l’interesse per
l’uomo invece che per l’essere in quanto Essere. Il fatto è che ad
Heidegger dell’uomo, delle sue sofferenze, del suo corpo, della fatica
del lavoro, della differenza tra uomo e donna, in una parola della
“condizione umana” per un verso non importava alcunché – come non gli
importava nulla del destino degli ebrei e delle altre vittime dei Lager
nazisti (l’unico suo accenno alla guerra è in favore dei prigionieri di
guerra tedeschi). E per altro verso, il suo pensiero non s’è mai
arrischiato in un vero confronto con la realtà. Il suo mondo iniziava e
finiva nella sua baita nella Foresta Nera, immersa nel silenzio della
tormenta di neve che «tutto nasconde»: è solo in queste condizioni che
«l’interrogarsi del filosofo può farsi essenziale».

Cinico e pavido, Heidegger ha trovato la quadra in una forma di
scrittura ed elocuzione filosofica che sempre Cioran, col dono della
battuta che gli era proprio, definì «un’escroquerie philosophique»: ogni
volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se
ne esce ingarbugliando il linguaggio. Con Heidegger l’insincerità
truffaldina del linguaggio raggiunge livelli che solo Shakespeare aveva
saputo toccare col suo Jago (personaggio che peraltro condivide con
Heidegger il disprezzo per i “negri”). Facendo strame della sintassi e
della filologia, Heidegger mette insieme espressioni la cui apparente
profondità è l’effetto prodotto (per parafrasare il suo stesso
linguaggio) dal «non-capirci-un’acca come la sua dimensione più propria»:
Heidegger non si rivolge a interlocutori, ma ad ascoltatori che davanti
al grado zero della significazione (cosa vorrà mai dire che «il niente nientifica»?)
sgranano gli occhi, spalancano la bocca e, dopo aver cercato di cavare
inutilmente il ragno dal buco, annuiscono gravemente per timore di
passare per scemi. Il linguaggio di Heidegger è assertivo, oracolare,
mistico: non potrebbe interessargli meno il linguaggio dell’operaio
(ricordate il contadino che stava zitto e fumava la pipa?), l’analisi
degli atti linguistici quotidiani, gli effetti che si producono nel
mondo dando ordini o stipulando convenzioni. Wittgenstein si interrogò
sul perché lui, che era architetto, non riusciva a comunicare con gli
operai che gli costruivano la casa: si interrogò sui diversi giochi
linguistici che denotano diverse condizioni sociali; Heidegger liquida
il linguaggio quotidiano come «chiacchiera insignificante». Ma quando Carnap gli svela il giochino, sottoponendo ad analisi logica le sue affermazioni e chiedendogli perché mai «il niente nientifica» dovrebbe avere un senso filosofico e «la pioggia piove» no, Heidegger risponde accusando i neo-positivisti e i logici tutti di «stretta ed intima connessione col comunismo russo», roba che neanche Gasparri!

Il linguaggio è «la casa dell’Essere»,
diceva ad ogni piè sospinto: ma a condizione di accettare il fatto che
per parlare dell’Essere ci manca il linguaggio, e dunque possiamo
parlarne solo a condizione di non parlarne. La prova? Il fatto che lui
stesso non ha terminato di scrivere Essere e tempo per la
mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. E se il linguaggio viene
meno a lui, non ci sono che due possibilità: o è l’Essere stesso che «si nasconde» (dove? Ma dietro se stesso, che diamine! Che sia il-giocare-a-nascondino
la dimensione più autentica dell’Essere?), o è Heidegger che ha mal
impostato l’analisi e non ha i mezzi per arrivarci. E allora perché
larga parte della filosofia non ha, semplicemente, relegato ai banchi
del rigattiere più vicino i libri di Heidegger? Perché l’heideggerismo
è un ottimo pretesto per continuare a fare quello che i filosofi,
tranne che per una breve parentesi e in modo minoritario, hanno sempre
cercato di fare: studiare il mondo invece di impegnarsi a cambiarlo.
Heidegger pone problemi seri: l’uomo è sopraffatto dal dominio della
tecnica, disorientato dalla crisi della ragione, alienato. Possiamo
uscirne? No: la crisi dell’uomo del Novecento è l’esito di qualcosa che
è in marcia almeno da tre secoli. La questione della tecnica è in
relazione con lo sviluppo della rivoluzione industriale, con quella che
un marxista chiamerebbe sussunzione della società sotto il capitale?
Per carità!, è tutta colpa di Socrate e Platone, che hanno dato avvio
all’oblio della distinzione tra l’Essere e l’essere dell’ente come
caratteristica del modo tecnico di pensare. E così, davanti alla crisi
degli alloggi che affliggeva la Germania nel dopoguerra, Heidegger si
poneva forse il problema della ricostruzione, dell’edilizia popolare,
degli sfollati, delle politiche sociali? No: la crisi degli alloggi è
solo una manifestazione di una più radicale crisi, quella del «non-sentirsi-a-casa-propria» come la dimensione più autentica dell’esser-ci.
L’alienazione non ha una causa storica, sociale (come pensa un
marxista), o individuale (come pensa la psicoanalisi): è una dimensione
quasi eterna, contro la quale non c’è che da sperare che «dove massimo è il pericolo, là dimora ciò che salva».
Cosa vuol dire questa frase? Heidegger non lo sa, ma l’ha detta Rilke,
che è un poeta, e quindi dev’essere sicuramente vera (e chissà cosa
avrebbe pensato Rilke dei suoi versi usati come bigliettini dei Baci
Perugina: non è anche questo un modo tecnico di pensare?). Una volta
l’ha ripetuta in parlamento anche Buttiglione: il bello di queste frasi
di cui non si capisce il senso è che le si può buttare lì, a caso, come
il jolly a scala reale. Del resto siamo nell’età del dominio della
tecnica, e «la tecnica non pensa» (come pure non pensano le
penne stilografiche, il fiasco del Monopoli e lo stesso Buttiglione: ma
questa è un’altra storia, direbbe l’indimenticabile Moustache). Dire
che la tecnica non pensa è un ottimo modo per uscire dall’impasse
intellettuale di chi non conosce la distinzione tra tecnica e
tecnologia, tra tecnica e scienza, e in definitiva crede di sapere
tutto delle pretese della tecnica e della scienza, ma poi chiama
l’elettricista per farsi cambiar la lampadina.

In realtà un accenno a ciò che può salvarci Heidegger l’ha fatto trapelare: ormai, dice nell’ultima intervista, «solo un dio ci può salvare».
«Un» dio, non «il» dio: forse ce ne sono molti? Possiamo, nel caso,
scegliere tra il mitico Thor, Osiride o Zeus? Non è dato saperlo. Ma un
filosofo che si affida a un dio non sta tradendo dal proprio sapere? Se
non è possibile operare per cambiare il mondo, tanto vale, invece di
arrischiare la fatica del pensiero, andare in pellegrinaggio a Lourdes
o a Pietralcina, o dal mago Otelma – o farsi dire cosa pensare
dall’heideggeriano Ratzinger e dalla sua schiera di zelanti ripetitori
(che, come la tecnica e il fiasco del Monopoli, non pensano: ascoltano,
annuiscono ed eseguono). Se l’autenticità ci è negata per colpa di
Platone, che vale condurre una vita autentica, o più modestamente
sincera, ma scomoda, in luogo di una vita ipocrita, ma comoda e
rassicurante? 
Cosa credete che abbia fatto Heidegger quando dovette scegliere tra
l’amore per l’allieva Hannah Arent e la moglie che non amava, ma alla
quale era sposato? Credete che abbia corso il rischio della sincerità
verso le proprie passioni? Se il linguaggio non è in grado di rendere
conto delle proprie asserzioni e di rispondere delle proprie menzogne,
allora sarà lo stesso scrivere bianco piuttosto che nero: cosa molto
utile, per un filosofo che dopo essersi esposto «disertando nella prassi» (così disse Heidegger, distintivo nazista al bavero, al disertore
Günther Anders) cerca di accreditarsi verso ambienti più moderati, dai
quali avere una cattedra, un posto in una rivista, un invito a un
convegno. Per prostituirsi intellettualmente con i circoli più
reazionari dell’Accademia italiana, magari a ore alterne per salvarsi
la coscienza. Heidegger è stato un perfetto trampolino per quei
filosofi che in piena Restaurazione, dopo aver millantato di voler
cambiare il mondo, sono tornati nello splendido isolamento delle
proprie cattedre, per quei nostalgici dello storicismo che avevano
tanta voglia di sentirsi dire che se non la Storia o la Provvidenza, ci
pensa la storia dell’Essere, insomma il destino, a far sì che il mondo
sia come sia, che il mondo non può essere diverso da come già-da-sempre
è: al massimo lo si può amministrare un po’ meglio, non criticarlo. Se
solo un dio può salvarci, che bisogno c’è di alzarsi alle 4 del mattino
per andare a volantinare davanti a una fabbrica? Se la comprensione
dell’esser-ci è negata dal nascondimento dell’Essere, perché preoccuparci del fatto che il da del Dasein,
cioè banalmente il mondo in cui viviamo, è il mondo costruito dai
Signori per lo sfruttamento dei Servi? Perché chiedersi cosa del nostro
corpo – la determinazione sessuata, le passioni, i flussi di libido, i
desideri, la pluralità delle ragioni, il conflitto permanente tra cuore
e ragione – increspa la placida serenità di un pensiero che non si
confronta mai col reale e resta sempre a fare il gioco dello specchio
con se stesso? Se siamo tutti alienati e non c’è differenza tra la
condizione maschile e quella femminile, tra il lavoro e l’ozio, tra il
nord e il sud del mondo, perché uscire dai salotti e sporcarsi le mani
col mondo? L’heideggerismo è una sorte di élitaria torre d’avorio i cui
occupanti passano il tempo a nientificare il niente, ossia a parlare
del nulla: dopo tutto, perché buttarli giù dalla torre? C’è il rischio
di ritrovarceli, noi della razza di chi rimane a terra (razza rude e pagana, beninteso), ancora tra i piedi.

Note

(*) Sono debitore, per il titolo, al saggio postumo di Luciano Parinetto Gettare Heidegger.
(**) Dopo la pubblicazione, su Liberazione
del 14 agosto 2008, di questo testo, Roberta De Monticelli, che
ringrazio per le parole di apprezzamento, mi ha segnalato il suo Contro Heidegger, liberamente scaricabile dal suo sito qui.

Pubblicato da grimaldello

dall'aprile 2006, nel cuore del centro storico di genova LA NOSTRA POSIZIONE E' QUELLA DI COMBATTENTI TRA DUE MONDI: UNO CHE NON RICONOSCIAMO, L'ALTRO CHE NON ESISTE ANCORA. OCCORRE FAR PRECIPITARE IL LORO SCONTRO, AFFRETTARE LA FINE DI UN MONDO, CONTRIBUIRE ALLA CRISI IN CUI RICONOSCERE I NOSTRI AMICI. "IL GRIMALDELLO" E' PENSATO PER QUESTO, UNO SPAZIO DOVE PROVARE A SCARDINARE LA PASSIVITA' E L'ALIENAZIONE A CUI IL CAPITALISMO CI COSTRINGE NEL QUOTIDIANO.

Una risposta su “Anteprima di “CONTRO HEIDEGGER”, prossima uscita delle autoproduzioni “IL SOTTOVOCE””

  1. Ciao, un bell’articolo, una domanda semplice: cosa intendi per buttare dalla torre? Ridimensionare e basta oppure vorresti eliminare totalmente il contributo di Heidegger dalla faccia della storia della filosofia?
    Perché per quanto possa avere una profonda repulsione per la persona Heidegger questo non mi impedisce di trarne spunti interessanti.

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