L’ emergenza sanitaria sta contribuendo a frammentare, nascondere e disintegrare i bisogni della classe.
E’ sotto gli occhi di tutti noi che quella che governa la gestione dell’emergenza è la logica del profitto – non ultimo quello delle case farmaceutiche – che detta le regole delle chiusure e delle aperture delle nostre libertà. Il mantra, neanche tanto nascosto, è che la produzione non si può fermare perché il bene del Capitale è anche il nostro. Quindi, per salvare questo mondo, bisogna fare “sacrifici”.
L’economia ormai governa la politica che, da parte sua, ha perso ogni minima velleità di mediazione sociale, ogni ruolo di gestione della cosa pubblica. I teatrini mediatici e politici, sia a livello nazionale che a livello locale, confermano il fatto che della nostra salute dobbiamo occuparci in prima persona altrimenti nessuno lo farà, tutti presi come sono a rincorre il consenso, il profitto e i colori delle varie libertà.
Alcune cose sembrano emergere con sempre più chiarezza e ci preparano a una prospettiva di futuro: qualcuno da questa crisi uscirà rafforzato e arricchito e questi non saranno certamente i lavoratori. Anzi, questa crisi viene già ora scaricata sulle loro spalle buttandoli sempre più ai margini di un sistema organizzato per sopravvivere a se stesso, costi quel che costi.
Confindustria – che per qualche milione in più affama e uccide alla luce del sole – continua a rivestire il suo ruolo di autorevole interlocutore, avendo il potere di far lasciare aperte aziende e fabbriche fin all’inizio di questa pandemia ed ancora oggi.
Anche senza accorgercene stiamo vivendo come in prigione, con le ore d’ora, i nostri spazi contenuti ed i nostri guardiani. Premialità e discrezionalità presentano quanto di fatto ci è dovuto come un privilegio da conquistare sulla base del nostro comportamento che, per altro, è determinato dalle nostre condizioni sociali ed economiche e dal mondo che ci circonda.
L’opportunistica retorica civilistica e istituzionale, che scarica sugli sfruttati i costi di una macchina statale parassitaria, ci riduce a CHIEDERE. Rivendicazioni, permessi e/o concessioni che, nei secoli, han fatto compiere un passo avanti, e due indietro, all’emancipazione sotto il giogo dello sfruttamento e della prevaricazione. E con il prolungarsi dell’emergenza, dopo mesi senza salario, sempre più persone si troveranno davanti all’ impossibilità di soddisfare i propri bisogni materiali.
E se, oltre a non chiedere, non dessimo e ci riprendessimo il maltolto?
Questa crisi ha accelerato processi già in atto, fra gli altri la digitalizzazione della società e il 5G, ormai venduti e sdoganati come miglioramento della qualità delle nostre vite; lo smart working che, se prima era una chimera per i lavoratori, ora è una certezza di estraneazione per permettere ulteriore sfruttamento; l’accettazione del controllo delle nostre vite e delle nostre libertà associato alla gestione della paura; la destrutturazione della collettività per il primato dell’individuo, sempre più solo per essere meglio comandato; la trasformazione delle città, che stanno diventando vuoti involucri di finanza e affari; la perdita del significato della politica e la vittoria della tecnocrazia.
Siamo di fronte ad un attacco alla classe senza precedenti nelle ultime decine di anni. Ogni forma di dissenso è tacciata come negazionista ed irresponsabile. La ribellione non è ammessa nemmeno per salvarsi la vita, come è stato evidente durante gli scioperi delle lavoratrici di ITALPIZZA o dei facchini della logistica (manganellati e denunciati a centinaia) piuttosto che nel massacro di proletari detenuti, durante le rivolte di marzo. Bilancio della strage di Modena: 14 morti, spari contro i reclusi, pestaggi, processi per i rivoltosi che rischiano molti altri anni di detenzione.
La corrispondenza tra dentro e fuori le mura delle carceri, tra il modo in cui vengono gestite le emergenze, e quindi le persone, si è fatta ancora una volta tangibile.
Lo Stato ci sta dicendo che oggi, in una repubblica parlamentare europea, si sente libero di sparare su donne e uomini reclusi. E non è detto che in futuro non sia disponibile a farlo nelle piazze, durante le lotte sul posto di lavoro, nei quartieri, o dovunque qualcuno decida di ribellarsi.
Zitti sui marciapiedi e morti nelle carceri. Questo lo scenario e l’insegnamento dopo (?) la pandemia.
E se li fermassimo?
Del resto non è mai stato, e mai sarà, il proletariato che scende in piazza contro il potere a diffondere pandemie e veleni, ma piuttosto quello costretto a vendere il proprio “rischio calcolato” a favore del lusso dei ricchi.
Creare lotte. Unirle. Continuare a credere che accodarsi a uno “ sportello per i diritti” possa far crollare il palazzo, non è serio. La società consumistica e capitalistica può essere intaccata e scardinata solo smascherando definitivamente, il legame tra denaro e morte. Tra lavoro e ingiustizia. Tra carcere e società e modo di produzione.
Che la solidarietà tra lavoratori in sciopero e detenuti in rivolta sorga in tempo. Non per ecumenismi o frontismi, sterili e democratici, ma affinchè il filo che unisce gli sfruttati attraversi lotte e ribellioni per diventare persistente, reale e non cancellabile.
Può suonare anacronistico, se non addirittura penalmente perseguibile!, parlare di riappropriazione degli spazi fisici e politici e di solidarietà. Ma è proprio quando gli spazi di condivisione sono sotto un attacco senza precedenti che quell’eco si fa imperativa. Staccarsi da smartphone, PC, trovarsi e condividere critiche E gioie. Rabbie e idee. Euforici cospiratori, tra escamotage e volti scoperti. Quando ci vogliono seduti, divisi e distanti: camminare assieme.